Efficacia, arti marziali e Aikido

Efficacia, arti marziali e Aikido

di Bruno Gonzalez (da Dragon Magazine – H.S. AIKIDO n°11/2016)

Efficacia: è semplicemente essere in grado di rompere il naso a qualcuno, lasciargli un doloroso ricordo e assumersene i rischi e le conseguenze? Oppure è valutare correttamente una situazione, reagire nel miglior modo possibile per disinnescare un eventuale conflitto prima ancora che si sviluppi pienamente?

La situazione di conflitto (il nostro rapporto, la nostra relazione con la causa del conflitto) può esistere in molteplici forme.
Con o senza un protagonista, può variare da un semplice senso di malcontento, una frustrazione, una parola sbagliata, un atteggiamento fuori luogo, fino a un alterco fisico, un improvviso attacco a tradimento, la minaccia di un’arma…
Le conseguenze di un conflitto interno o esterno sono altrettanto varie. Lo stress e i suoi effetti devastanti, un pugno invalidante, il rischio di essere contaminati da sangue infetto, una caduta sfortunata, problemi legali e penali, le ripercussioni psicologiche, le spese del dentista.
Ma a volte anche la gloria…

Un conflitto non è prevedibile, non rispetta accordi, non ha limiti e non fornisce alcuna garanzia sul suo esito. Tenuto conto di questa molteplicità di situazioni conflittuali, l’efficacia di un pugno o di una leva articolare possono essere la soluzione? In effetti, a volte il confronto fisico può rivelarsi LA soluzione sul momento, ma può solo “risolvere” in modo molto limitato.
Una gestione efficace di tutte le situazioni (conflittuali o meno) non potrebbe piuttosto trovare terreno fertile se avessimo una migliore capacità di agire in modo adeguato, spontaneo, nell’immediatezza e da una prospettiva umanista? Di quale tipo di efficacia stiamo parlando? Cerchiamo soltanto un’efficienza (1) caratteristica e propria della nostra arte marziale? O l’idea di una certa efficacia (2) che potrebbe accompagnarci nel corso della nostra vita? Perché ci impegniamo in una, e soprattutto in questa, disciplina? Con quale/i prospettiva/e? Lo sappiamo davvero?
Spesso mi viene posta una domanda: “l’Aikido è efficace?”.

Cosa offre l’Aikido

La modalità operativa nelle arti marziali consiste nel simulare una situazione conflittuale strutturata che serve come base per la formazione o la pratica. BG_Article2Come sistema educativo, l’Aikido tende a risolvere in modo ottimale e umanistico il conflitto in tutti i suoi vari aspetti, a evitare di generarlo e magari addirittura a prevenirlo. Nella pratica, questo sistema è composto dallo studio delle tecniche (azioni concrete che non necessitano di essere realistiche), da esercizi e applicazioni (azioni adattate a una situazione di emergenza). A causa della loro costruzione e della loro durata, questi esercizi, questi movimenti di studio non sono destinati ad essere semplicemente tecniche di autodifesa. Essi costituiscono la struttura che ci permette di studiare i nostri condizionamenti, così come pure i principi antropologici e universali che ci governano (ad esempio il principio di economia, di semplificazione, che consiste nell’utilizzare il minimo sforzo, più precisamente: la giusta tensione, per raggiungere un risultato ottimale).
Il pregio di questo sistema consiste nel fatto che lo studente sviluppa, tra le altre, tre qualità essenziali relative al concetto di efficacia: la presenza, la fiducia, la credibilità.
La qualità della presenza è caratterizzata da una visione sensibile, illuminata, del e nel momento, e presuppone l’assenza di tensioni dannose. Da questa visione deriva una massima capacità di adattamento, in grado di generare un’azione spontanea appropriata (armonica).
Ciò avviene in una prospettiva rassicurante, di compassione: la risoluzione armoniosa e umanista del conflitto in tutte le sue espressioni.
Ecco l’originalità del modus operandi dell’Aikido; la non-opposizione, quell’idea per cui è più difficile, se non impossibile, tenere una manciata di sabbia fine piuttosto che un bastone o una grossa pietra. Anche se quest’ultima è imponente ed estremamente resistente, in qualche modo per sua stessa natura ci offre I’occasione di percuoterla, di romperla… di scolpirla.
… Quell’idea che l’intenzione stessa di distruggere uno spazio vuoto si rivela assurda.
Non abbiamo forse notato quanto una persona meno ha talento tanto prima forma le sue convinzioni e più a lungo vi si aggrappa tenacemente?” (Michael Tchekhov)
La presenza è secondaria alla consapevolezza che deriva dallo studio delle nostre tensioni, blocchi, certezze, convinzioni e rifiuti sia consci che inconsci; in due parole: le nostre paure. Queste paure si attaccano come parassiti alla libertà di eseguire un’azione appropriata, al nostro rapporto con gli altri e con l’ambiente. Senza la presenza, né l’attacco né la strategia diplomatica saranno sufficienti. Parallelamente, o di conseguenza, con la presenza appariranno fiducia e credibilità.
La credibilità è la stessa fiducia, ma percepita dall’altro. Entrambe sono direttamente collegate al nostro livello di competenza, alle nostre esperienze molteplici e varie (dalla rissa all’introspezione) e contribuiscono, ovviamente, alla qualità della presenza e viceversa.

Questione di dosaggio

Una stessa situazione può essere percepita, sentita e vissuta in modo completamente diverso a seconda della qualità della nostra presenza, della nostra fiducia e della nostra credibilità. In ultima analisi, alla fine non vi è “successo o fallimento”, sarà il nostro modo di reagire o di agire a dare origine al conflitto e alimentarlo, oppure a disinnescarlo.
Alcuni insegnamenti si concentrano sull’aspetto dell’efficacia: il KO, in poche parole. Altri piuttosto evidenziano i valori di un sistema educativo, nel senso più ampio del termine.
Le due cose non sono incompatibili, al contrario. Sono persino formative e interdipendenti. E’ tutta una questione di dosaggio, discernimento e soprattutto prospettive. È qui che il ruolo dell’insegnante assume tutto il suo significato. Non è il metodo che è importante, ma la persona che insegna.
Tornando all’Aikido e al suo processo di apprendimento, per un principiante ogni tecnica all’inizio sembra unica e risponde a una specifica situazione di attacco, di particolare priorità.
Nel momento in cui inizia a comprendere, a fare collegamenti e a mettere in prospettiva ciò che ha imparato, la particolarità delle tecniche gli rivela principi comuni che vanno oltre il sistema convenzionale. Le differenze tra le tecniche, in realtà, mettono in evidenza ciò che le tecniche hanno in comune. Contenuto e forma diventano una cosa sola, come le onde di un oceano la cui impermanenza e le continue trasformazioni sono solo l’espressione della loro vera natura.
Un’onda è acqua, prima di essere un’onda.
Senza un processo vivente (il contenuto), non vi è che l’estetica, e d’altra parte, un processo vivente che non giunge a una forma articolata è una “zuppa”.” (Thomas Richards)
Quindi praticare una tecnica significa praticare tutte le tecniche. Esercitare la propria presenza in una situazione significa esercitarla in tutte le situazioni.
Questo è il ponte che unisce la presenza sperimentale e la vita reale. Là troviamo, a mio avviso, la vocazione e l’incredibile efficienza di questa disciplina. Vocazione che, per inciso, non è riservata esclusivamente all’Aikido, ma vale per lo studio sincero di qualsiasi arte o processo che puntano verso l’universale, l’ultimo, il trascendente.

Un’efficacia relativa

Per molti studenti, l’efficacia della loro pratica può anche soddisfare una aspettativa “semplice” che avevano quando hanno iniziato o che si forma man mano che progrediscono. Il semplice piacere di creare un sottile rapporto di comunicazione fisica con l’altro. Riscoprire il proprio corpo e il suo funzionamento, diventare meno rigidi o più tonici, la necessità di socializzare, di interrompere, per lo spazio di una lezione, il ciclo senza fine di pensieri generati “da una giornata stressante”.
Nel Dojo dove insegno c’è un praticante con un leggero ritardo cognitivo. La sua disabilità probabilmente non lo porterà a raggiungere un livello elevato (anche se … di quale livello stiamo parlando?), ma con grande determinazione e secondo i suoi ritmi sta facendo enormi progressi. Ognuno percorre la propria strada con quello che è, con quello che ha. Dunque l’efficacia relativa a una pratica ha senso solo in relazione alle nostre aspettative e prospettive, qualunque esse siano.

Confronto e giudizio di valore

Molti principianti o inesperti mi pongono spesso anche questa domanda: “Qual è l’arte marziale più efficace?”.

Un’attività marziale, di combattimento, propone un contesto regolamentato, con i suoi limiti e alcuni codici che le sono propri: mosse proibite, abiti tradizionali, categorie di peso e di età, arbitraggio, assenza di competizione… Qualsiasi pratica, anche la più “realista”, si attiene a regole stabilite.

"Il passo del presente contiene tutti gli altri passi"

“Il passo del presente contiene tutti gli altri passi”

All’interno di una stessa disciplina possono inoltre emergere diverse tendenze, o “stili”, come direbbe qualcuno. Infatti l’insegnante, in virtù di una propria ricerca verso una migliore comprensione dei principi e alle influenze che subisce in un dato momento, orienta il proprio insegnamento verso differenti e, ancor più, personali forme di pratica. Gli studenti, a loro volta, procedono lungo il percorso che viene loro offerto.
Anche gli aikidoka non sono uguali nelle loro tecniche, ma nei loro principi.
Questo è, del resto, ciò su cui dovremmo concentrare la nostra attenzione quando facciamo una valutazione: quanto questa azione potrebbe conciliarsi con i principi? Ma la maggior parte del tempo ci concentriamo su una caratteristica (che spesso porta a confronti superficiali, a giudizi di valore, e crea così la separazione), invece di focalizzare la nostra attenzione su ciò che ci unisce, o che potrebbe farci incontrare (la permanenza dei principi). Dimentichiamo che un’onda è acqua.
Quando cominciamo a sfoggiare le nostre caratteristiche (dal punto di vista tecnico o ideologico…), l’idea viene sopraffatta dall’oggetto: è il formalismo, della forma fisica ma anche della forma mentale. Lo stesso vale per il concetto di efficacia. All’interno di una pratica strutturata è richiesta un’efficacia caratteristica a quella disciplina.
Noi perfezioniamo l’efficienza delle nostre azioni, anche specifiche, secondo il nostro grado di avanzamento nella pratica, dei nostri obiettivi e delle diverse prospettive che emergono in tutto il nostro viaggio. Noi forgiamo il fisico, purifichiamo la mente.

A ciascuna arte la propria efficacia

In ogni caso, l’aspetto primario del grado di efficacia marziale ha un senso solo all’interno della propria struttura. A ciascuna disciplina la sua efficacia, o più precisamente, la sua efficienza condizionata. Il confronto semplicistico, il giudizio di valore tra le discipline è il sintomo di un fraintendimento. Ciò si verifica quando si comincia a voler assolutamente rivendicare, diffondere e sfoggiare il nostro punto di vista, sicuramente parziale, sull’efficacia.
Qual è il miglior pilota, il più efficace, quello di F1 o di Rally? Entrambi guidano una macchina e condividono lo stesso obiettivo: vincere una gara. Le rispettive capacità, relative alle caratteristiche dei loro sport, non sono paragonabili in termini di giudizio di valore. Loeb è meglio di Hamilton? Questa domanda non ha senso.
Constantin Stanislavski, un grande ricercatore nel campo dell’arte drammatica, ha detto: “Amate l’arte in voi stessi, non voi stessi nell’arte“.

Un senso di superiorità

Dal momento che le tecniche esistono all’interno di un certo contesto, la loro efficacia è relativa. L’aspetto limitante di questa struttura, che tende a semplificare la messa in scena di una situazione di conflitto, è lontano, molto lontano dall’abbracciare la complessità e la varietà dei conflitti al di fuori di questa struttura. Le singole competenze specifiche (dalla prospettiva del combattimento) e la loro rivendicazione non possono da sole garantire una gestione ottimale delle diverse tipologie di conflitto. Proprio come (e qui mi riferisco a una certa tendenza tra gli aikidoka) l’appropriazione, o “furto intellettuale”, di belle e lodevoli prospettive, non dovrebbe anche lì, consciamente o inconsciamente, giustificare un senso di superiorità, una cecità di sorta. Qualsiasi tentativo di trascendenza deve essere espresso solo attraverso la conoscenza. Come ogni disciplina, l’Aikido è un’arte che richiede competenza, credibilità e buonsenso.
L’idea, consapevole o no, di sentirsi superiori o pensare di esserlo, il confronto accanito in tutte le sue forme (fisica, intellettuale, ideologica), dal più sottile al più grossolano, è un pozzo senza fondo e indicativo di una mancanza di fiducia. Per esempio, se sento che la mia capacità di battere qualcuno è la soluzione definitiva al conflitto e l’obiettivo principale della mia formazione, non avrò mai veramente fiducia, perché ci sarà sempre incertezza circa l’esito di una situazione sempre in bilico. Anche allenandomi fino a diventare forte come un carro armato, come posso illudermi di essere, nel senso più ampio del termine, il più efficace? Ci sarà al massimo una paura repressa, inconfessata che darà luogo a una certa arroganza. Ho avuto l’opportunità di conoscere una persona che ha trascorso più di quindici anni in prigione. Mi ha detto che in carcere: “Non devi avere paura del provocatore che sembra un assassino (cicatrici, naso storto…) ma piuttosto fare attenzione a quello con la faccia senza segni e che non ha un soprannome”.
Perché per mantenere un volto senza segni stando in prigione per quasi due decenni, dobbiamo dimostrare, credetemi, di essere estremamente efficaci, adeguati a quell’ambiente, di avere una certa intelligenza diciamo… relazionale (senza entrare nei dettagli), credibilità e presenza. L’efficacia, altrimenti detta presenza, non proviene da una qualche ideologia, dogma, o senso di superiorità, ma da una visione serena, risultato delle nostre esperienze. Quando si è sicuri, si hanno meno cose da dimostrare agli altri… e a se stessi.

Fiducia e credibilità

Certo, non siamo mai completamente ne’ costantemente fiduciosi, ma è proprio qui che la prospettiva di uno studio autentico prende senso. Invece di reagire quando una macchina davanti a noi effettua una manovra spericolata, dobbiamo agire con calma (o meno). Non dobbiamo rimanere sotto l’influenza di una reazione emotiva che ci prende la mano. Lucidità e discernimento non si mescolano bene con la reattività emozionale intensa, stagnante, sia attorno a un tavolo che su di un ring. Anche durante un incontro di boxe, la qualità della presenza farà certamente la differenza. In sintesi, l’efficienza della nostra esperienza è rilevante solo in relazione all’ambito dei nostri studi, alle nostre esigenze e alle nostre prospettive.
Confondere l’efficienza con l’efficacia equivale ad avventurarsi in una situazione ingarbugliata, in giudizi di valore… L’efficacia, nel senso più ampio del termine, è il risultato di una qualità di presenza che è essa stessa caratterizzata, tra le altre cose, dalla vostra fiducia e credibilità. La presenza, quindi l’efficacia che deriva dallo studio, trascende l’efficienza della propria arte e abbraccia tutte le situazioni. Infine, l’aspirazione umanista del principio di non-opposizione (che non significa, sia chiaro, non-azione) sembra essere una prospettiva ragionevole e adeguata alla problematica del conflitto.
In conclusione, vi invito semplicemente a interrogarvi sulle vostre prospettive attuali e le vostre aspirazioni future. L’intuizione di alcune risposte nascerà dal tatami.

L’arte riflette la vita, ma la vita riprodotta in un’opera d’arte è soggetta alle leggi dell’arte.” (Vsevolod Meyerhol)
La lotta migliore è quella che non si combatte.” (Gichin Funakoshi)

Praticate con gioia e discernimento.”

Traduzione: ©Sabrina Conti     

Note:
(1) L’efficienza è l’ottimizzazione degli strumenti utilizzati per raggiungere un risultato. Viene misurata come rapporto tra i risultati ottenuti e le risorse adoperate.
(2) L’efficacia è il rapporto tra i risultati ottenuti e gli obiettivi fissati.

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